Negli ultimi anni si è parlato dell’utente che si rivolge allo psicologo definendolo un cliente in alternativa al paziente. Tale sottigliezza è nata per differenziare l’utente che si rivolge allo psicologo da quello che si rivolge al medico, o che comunque è allettato in ospedale. Dare del cliente all’utente che si rivolge allo psicologo è stato, ed è ancora adesso, il tentativo di promuovere in lui una motivazione che lo spinga a delegare meno allo psicologo, per ritrovare invece maggiormente risorse in se stesso. Nell’immaginario collettivo, erroneamente, il paziente viene visto come qualcuno che si affida completamente alle cure dell’altro, quasi che l’altro avesse un potere salvifico, quindi capace di sapere che cosa è giusto per noi.
Poiché invece la psicologia vuole proporre uno spazio di riflessione in cui proprio l’utenza possa interrogarsi su che cosa possa essere giusto per se stessa, l’espressione paziente diviene inadeguata.
Tuttavia, sia il paziente del medico che quello dello psicologo hanno qualcosa in comune che forse sarebbe difficile attribuire ad un cliente. Il paziente è qualcuno che sta soffrendo, che è preoccupato, che è spaventato, solo per dire alcune delle esperienze emozionali che lo possono riguardare quando indossa questi abiti. Un cliente è preso da altre emozioni che sembra difficile accomunare a quelle del paziente. E’ chiaro, d'altro canto, che il pagare, quindi il comprare un servizio, renda qualsiasi paziente sempre un cliente.
Proviamo quindi a restare sulla dimensione del paziente, inteso come colui che è preso dentro un ventaglio di emozioni che in linea generale possiamo definire “sgradevoli”, evitando difensivamente di renderlo qualcosa d’altro, magari, appunto, un cliente più gestibile.
Il paziente è qualcuno -ce lo indica anche l’etimo della parola- che sta sopportando, che soffre.
La "persona paziente" è sempre vista come qualcuno che tollera: "tu sì che ne hai di pazienza!" dice l’amico al genitore, ormai provato dai capricci del figlioletto.
L’essere paziente, per ritornare al tema più vicino a noi, che è quello della psicoterapia, implica il dover sviluppare una forma di tolleranza nei confronti della frustrazione, emozione quest’ultima generata da un sentimento di impotenza.
Alla frustrazione tutti noi reagiamo sempre con un colpo di reni, fisiologicamente, per potercene liberare prima possibile. Tuttavia la terapia psicologica vuole aiutare proprio a tollerare, gestire, le forme della frustrazione, nell’ipotesi che essa si manifesti ogni volta che ci si confronta con l'impossibilità di accedere al soddisfacimento immediato dei propri bisogni e desideri.
Pensiamo, giusto per fare alcuni esempi, a certe fantasie di guarigione/cambiamento immediato, coerenti con la logica del tutto e subito, piuttosto che all'esperienza stessa dell'apprendimento.
Imparare qualcosa di nuovo è frustrante per definizione, perché ci confronta con qualcosa che non si conosce, che non si padroneggia.
Conoscere i propri meccanismi mentali, quegli automatismi dai quali derivano le nostre sofferenze entro i contesti che viviamo, è un’esperienza d’apprendimento, la quale diviene più frustrante nel momento in cui si tenta di costruire modalità di funzionamento inedite.
Per questo diffidiamo di quei percorsi terapeutici lampo, in quanto, secondo noi, eludono la frustrazione quale esperienza connaturata a qualsiasi forma di apprendimento; esperienza che se da un lato ci fa soffrire, dall’altro ci dà anche la garanzia che stiamo realmente lavorando per cambiare.
E non può esserci cambiamento senza frustrazione.
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