Il nostro scritto rimanda ad un articolo comparso un po' di anni fa su D, il settimanale di Repubblica, dal titolo -eloquente- "Le dieci cose da non dire alla maestra di tuo figlio". L'articolo ci offre la possibilità di condividere con voi qualche considerazione sul consiglio, o meglio, sul rapporto, a nostro parere a volte tanto stretto quanto problematico, tra la psicologia e il dare consigli.
L'articolo ci pone di fronte alla classica situazione dell'esperto psicologo che, chiamato in causa, declina il proprio decalogo, nel caso specifico al fine di promuovere una relazione di fiducia tra genitori ed insegnanti; decalogo peraltro curiosamente rivolto ad una sola delle due parti, i genitori.
L'idea di fondo, sembrerebbe essere quella di migliorare la relazione, sulla base di una logica pedagogico-educativa che tratta la comunicazione stessa nei termini di un oggetto-contenuto da trasmettere attraverso una sorta di addestramento.
Nel provare a leggere l'articolo, ed esaminando anche i commenti dei lettori, riportati alla fine, quello che pare emergere è, nel migliore dei casi, una sensazione di ovvietà.
Tale sensazione, più che configurarsi come qualcosa di specificatamente connesso a questo decalogo, riguarda i consigli in generale.
Cos'è, in fondo, un buon consiglio, se non qualcosa di ragionevolmente ovvio; qualcosa che affonda nel buon senso comune? Saggio quanto vogliamo, ma certamente portatore di contenuti non ascrivibili ad un'area specialistica.
Un'altra caratteristica del consiglio, è quella di situarsi su di un livello prescrittivo-normativo, per definizione acontestuale, efficacemente rappresentato dalla presenza del dovrebbe: il piano del "come dovrebbero andare le cose", rigorosamente confinato nell'area della razionalità.
Che spazio occupano, entro questo scenario, le emozioni; emozioni che, evidentemente, non parlano la lingua del dover essere?
Torniamo all'articolo di D, e consideriamo, ad esempio, questa parte del testo:
Per evitare di incrinare il rapporto con la maestra, ecco le frasi che è meglio non dirle, suggerite da Suppa.
1. Sono in ansia quando lo lascio a scuola
Questo fa intendere che non hai fiducia in lei, che non le stai affidando il bambino fino in fondo. La maestra potrebbe interpretare una frase come questa in modo molto svilente. Se la madre si mostra eccessivamente ansiosa, il bambino potrebbe assorbire questo stato d'animo, sentirsi fuori luogo a scuola ed avere difficoltà a fidarsi a sua volta della maestra. E ciò potrebbe renderle il lavoro di molto difficoltoso.
2. Mio figlio non viene volentieri
È un'affermazione che sottintende una responsabilità dell'insegnante, perché sembra voler dire "è colpa tua". Questa frase potrebbe essere sostituita da "secondo lei mio figlio si trova bene, o ha qualche difficoltà?" per lasciare aperta la possibilità di confronto.
Il decalogo proposto si fonda sull'idea -implicita- che una relazione di fiducia con l'altro possa prodursi affidandosi a delle strategie in grado di garantire una comunicazione adeguata, in quanto sostanzialmente innocua. Politically correct, verrebbe da dire!
Ci appare infatti importante sottolineare come, nel contesto che stiamo esaminando, l'idea di adeguatezza/efficacia della comunicazione sembrerebbe avere più a che fare con l'obiettivo di non per-turbare l'altro, finendo magari per innescare situazioni conflittuali, che con la possibilità di realizzare un incontro, uno scambio.
Potremmo definire la logica che sostiene questo decalogo, una logica sostitutiva, organizzata attorno all'idea di sostituire l'emozione che si prova con qualcosa di più adeguato ed innocuo, ogni qual volta ci si confronti con qualche dato emozionale problematico.
Che fine fa, allora, quel contenuto scomodo, ma indubbiamente più autentico, che si prova? Sembrerebbe semplicemente accantonato, forse dentro la fantasia che possa magicamente dissolversi, perché fuori dalla vista, come polvere sotto al tappeto. Tale logica appare problematica principalmente perchèé esclude dal campo proprio quel livello emozionale che, di fatto, organizza e costruisce le premesse su cui una relazione (e quindi anche la comunicazione) si fonda.
C'è quindi tutto un materiale che resta inaccessibile e inutilizzabile, dentro una concettualizzazione della comunicazione nei termini di pratica confinata al piano intenzionale (razionale); qualcosa, in altri termini, da prendere alla lettera... come se, verrebbe da dire, non esistesse l'inconscio! Come se la fiducia potesse prodursi, all'interno di un rapporto, a prescindere dalle emozioni, dalle fantasie e dai pensieri che esso evoca nei suoi contraenti, semplicemente dicendo le "frasi giuste".
Ragionare sul consiglio ci ha portati a riflettere su di una specifica rappresentazione della comunicazione (presente in ambito psicologico e non solo), a nostro avviso strettamente connessa alla pratica del dare consigli e ben rappresentata dall'articolo dal quale abbiamo preso spunto.
Si potrebbe obiettare che il contesto di un giornale non è, evidentemente, il contesto di una psicoterapia, e che quindi il registro del consigliare si configuri come l'unico utilizzabile in questa situazione.
Dal nostro punto di vista, tuttavia, sono i modelli che si possiedono a produrre visioni, posizionamenti, trasversali ai diversi contesti, e non il contrario.
La psicologia che abbiamo in mente, è una disciplina che tenta di non rispondere alla domande che le vengono poste, ma, piuttosto, di aiutare le persone, i gruppi, i contesti che le si rivolgono a produrre creativamente le proprie risposte.
E' una disciplina che cerca di produrre aperture, traiettorie, dando vita ad uno spazio -reale e simbolico al contempo- entro cui realizzare un'esplorazione, dentro un'esperienza d'incontro e scambio con l'altro. Esperienza perturbante per definizione, che la funzione psicologica si propone, da un lato di rendere possibile, dall'altro di sostenere e contenere mediante la messa a disposizione di uno spazio protetto, entro cui ciò che si racconta -e si vive- possa essere pensato ed elaborato.
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