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Il labirinto come metafora esistenziale




LABIRINTO

Wislawa Szymborska (Bnin, Polonia, 1923 – Cracovia, Polonia, 2012)

- e ora qualche passo

da parete a parete,

su per questi gradini

o giù per quelli,

e poi un po’ a sinistra,

se non a destra,

dal muro in fondo al muro

fino alla settima soglia,

da ovunque, verso ovunque

fino al crocevia

dove convergono

per poi disperdersi

le tue speranze, errori, dolori,

sforzi, propositi e nuove speranze.

Una via dopo l’altra,

ma senza ritorno.

Accessibile soltanto

ciò che sta davanti a te,

e laggiù a mo’ di conforto,

curva dopo curva,

e stupore su stupore,

e veduta su veduta

Puoi decidere

dove essere o non essere,

saltare, svoltare

pur di non lasciarsi sfuggire.

Quindi di qui o di qua

magri per di lì,

per istinto, intuizione,

per ragione, di sbieco,

alla cieca,

per scorciatoie intricate.

Attraverso infilate di file

di corridoi, di portoni,

in fretta, perché nel tempo

hai poco tempo

da luogo a luogo,

fino a molti ancora aperti,

dove c’è buio ed incertezza

ma insieme chiarore, incanto

dove c’è gioia, benché il dolore

sia pressoché lì accanto

e altrove, qua e là,

in un altro luogo e ovunque

felicità nell’infelicità

come parentesi dentro parentesi,

e così sia,

e d’improvviso un dirupo

un dirupo, ma un ponticello

un ponticello, ma traballante,

traballante, ma c’è solo quello,

perché un altro non c’è.

Deve pur esserci un’ uscita,

è più che certo.

Ma tu non la cerchi,

è lei che ti cerca,

e lei fin dall’ inizio

che ti insegue

e il labirinto

altro non è

se non la tua, finché è possibile,

la tua, finché è tua

fuga, fuga –


Questa poesia della Szymborska ci pare un prezioso pretesto per provare ad evocare (anzichè spiegare, descrivere) quei vissuti di smarrimento, impotenza, che ciascuno di noi avverte, in alcuni momenti della propria vita, riconducibili alla sensazione di muoversi -più o meno alla cieca- alla ricerca di una via d'uscita che pare sottrarsi di continuo alla vista.

Pensiamo, più che a luoghi reali, a situazioni, comportamenti, eventi, che paiono ripresentarsi nostro malgrado, dando vita ad una ripetizione senza fine. Ecco che il labirinto si trasforma in un circolo vizioso. Forse, allora, l'uscita non esiste? E' solo un'illusione?

La poesia, che nel suo lungo e tortuoso procedere sembra riprodurre, anche sul piano strutturale, il "senso del labirinto", si chiude conducendoci davanti al nostro stesso autoinganno: non siamo noi a cercare l'uscita, semmai è lei a trovarci. Il nostro è piuttosto un affannoso ed instancabile tentativo di restare impigliati dentro la tela labirintica, eludendo la possibilità di fuoriuscire.

Perché c'è qualcosa di rassicurante nella ripetizione; perché la sofferenza può finire per divenire un rifugio drammaticamente sicuro; perché mettere in crisi un assetto significa restare momentaneamente senza rete. Rischiare. Perché accanto al desiderio di quel cambiamento che crediamo fermamente di volere e perseguire, abitano zone d'ombra -nostre stesse parti- che fatichiamo a riconoscere e ad interrogare.

La psicoterapia può divenire quello spazio entro cui pensare il proprio procedere entro il labirinto, osservandolo -e osservandosi- da una posizione inedita e per certi versi paradossale: interna ed esterna al contempo, così come accade quando il pensiero (che per definizione ha bisogno di produrre una distanza) si connette all'emozione (espressione di un coinvolgimento, di un' implicazione che ci fa stare dentro).

Attraverso la psicoterapia possiamo gradualmente ri-conoscerci, attraversare i nostri autoinganni, trasformando la "fuga" in un "andare verso".



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